di Massimo Conte

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La versione inglese dell’articolo è disponibile a questo link.

 

Come possiamo orientarci nella complessità del mondo?

Quanto siamo consapevoli di ciò che vediamo, che ci serve per interpretare il mondo?

Nell’ecosistema digitale in cui siamo immersi, quali diventano le nuove competenze di base del cittadino e di chi lavora con i dati come scienziati, designer, giornalisti?

 

Premessa

L’impatto della malattia Covid-19 ha causato nel 2020 una forte discontinuità su più dimensioni dell’agire umano: la sanità, l’economia, il lavoro, l’educazione. Trasversale a tutte queste ce n’è una meno appariscente, ma che le collega tutte: è quella che riguarda la nostra visione e comprensione della complessità dei sistemi dinamici interconnessi e non lineari in cui viviamo.

A differenza di molte altre quarantene vissute in passato dagli uomini questa è la prima, a livello globale, che si caratterizza per uno scollamento tra corpo e mente: all’isolamento fisico per evitare il contagio, si accompagna una iperconnessione digitale. La conoscenza da parte delle persone è spesso completamente mediata: dai media tradizionali e da quelli digitali. Di conseguenza, la nostra visione del mondo è completamente mediata dalle fonti informative che scegliamo: la nostra percezione e le scelte che ne conseguono sono influenzate dagli interpreti che scegliamo.

La pandemia da Coronavirus ha già avuto alcune conseguenze anche nel nostro rapporto con la conoscenza, che è il tema centrale di questo saggio. Il pensiero e il metodo scientifico sono tornati al centro della scena del dibattito pubblico: le decisioni fondamentali di ordine pubblico e sanitario dei governi prese in base alle consulenze dei comitati scientifici, e in ultima battuta, in base all’interpretazione dei dati; gli aggiornamenti quotidiani su grafici, curve, tendenze come notizie principali nei telegiornali; il dibattito nei social tra i cittadini su quale posizione prendere rispetto a quei dati.

Due gli elementi che spiccano:

  • la mancanza di una cultura diffusa delle competenze di base necessarie per comprendere, raccontare e rappresentare i dati. Non solo tra i cittadini, ma spesso anche tra i professionisti del settore;
  • la mancanza di consapevolezza della mancanza di queste competenze.

Quindi: da un lato il “come pensiamo”, cioè quale metodo utilizziamo per creare conoscenza attraverso ipotesi e conferma delle stesse attraverso i dati. Dall’altra il “cosa guardiamo”: il pensiero scientifico può non essere sufficiente se il framework di riferimento è una visione del mondo lineare e riduzionista.

Lo sforzo richiesto è quindi doppio: una consapevolezza su quali strumenti utilizzo per pensare, o utilizza chi per me cittadino mi presenta una tesi; e dall’altra una comprensione delle caratteristiche di base del pensiero complesso, necessarie per interpretare un mondo complesso.

Procediamo per gradi, e proviamo a seguire il processo di una persona che cerca di informarsi e farsi un’idea oggi, partendo dai dati per arrivare fino al confronto sociale su fatti ed eventi rappresentati, suddiviso in sei passaggi. Partiamo dal primo step.

 

DATI → RAPPRESENTAZIONE → PERCEZIONE → BIAS → POLARIZZAZIONE → DISPUTA?

Nella “società digitale” in cui ormai viviamo, ogni giorno vengono prodotte quantità sterminate di dati. Alcune stime ipotizzano che nel 2020 ogni individuo abbia prodotto in media 1,7 Megabyte… al secondo. Significa che in una giornata tutti gli esseri umani messi insieme producono 2,5 exabyte, cioè 2,5 seguito da 18 zeri, cioè 2,5000000000000000000 bite. Ogni giorno!

Il sovraccarico cognitivo non è un rischio, ma una insana deriva che ognuno di noi sperimenta quotidianamente. I big data sono stati i propulsori che hanno generato le 5 big tech, diventate nel giro di vent’anni le prime aziende al mondo. Ma cosa intendiamo con “dati”? Sono gli elementi di base di un’informazione, ovvero simboli come numeri e lettere che devono essere elaborati, per lo più elettronicamente, da un determinato programma (fonte: Treccani). Per orientarci, farci un’opinione e prendere decisioni (sebbene a razionalità limitata) abbiamo bisogno di aggiungere significato al materiale grezzo costituito dai dati, creando connessioni rispetto ai nostri modelli mentali e calandoli in un contesto.

Affinché un dato/evento si trasformi in informazione, è necessario che l’utente/cittadino sia esposto alla comunicazione di questa informazione. Nella ricezione di queste informazioni, accanto alle “5 W + 1 H” tipiche del giornalismo, ovvero

  • What: cosa è successo?
  • Who: chi?
  • Where: dove?
  • When: quando
  • Why: perché?
  • How: come?

potrebbe essere utile attivare quello che possiamo definire il “kit del critical thinking” (adattato da R. Paul, L. Elder, 2020), ovvero interrogarsi sugli elementi necessari per attivare un ragionamento, come

  • Proposito: perché vengono presentate queste informazioni?
  • Problema: di quale questione stiamo parlando?
  • Informazioni: quali informazioni vengono usate per arrivare alle conclusioni? Le informazioni sono vere?
  • Inferenze: come si è arrivati a queste conclusioni?
  • Concetti: qual è la tesi principale che l’autore voleva esprimere?
  • Assunti: cosa viene dato per scontato in questo ragionamento?
  • Implicazioni: se si accetta questa posizione, cosa ne consegue?
  • Punti di vista: da quale punto di vista si sta osservando il fenomeno? Ne esistono altri?

Ovviamente nessuna persona, nemmeno la più volenterosa, ha tempo e voglia di farsi tutte queste domande per ogni notizia. Specialmente in tempi di continuo sovraccarico cognitivo generato dall’attention economy, in cui molti attori sono in continua competizione per la nostra attenzione.

Capovolgendo la questione, potremmo dire che le domande andrebbero considerate in base alle risorse che richiedono per fornire loro una risposta (L. Floridi, 2020). Fare buone domande e cercare risposte soddisfacenti è il lavoro, prima di tutto, degli scienziati. E una volta che i dati sono diventati conoscenza, questi vanno rappresentati. Tralasciando le questioni epistemologiche relative al metodo con cui si fa scienza, qui ci soffermeremo invece sull’ultima parte del processo, quello dell’information / data visualization, un settore interdisciplinare che ha avuto una crescente enfasi negli ultimi anni.

 

DATI → RAPPRESENTAZIONE → PERCEZIONE → BIAS → POLARIZZAZIONE → DISPUTA?

Facciamo ora una deviazione parziale del nostro percorso, spostando il focus dell’attenzione dal fruitore finale dell’informazione (il cittadino / utente) a chi l’informazione e la visualizzazione del dato la crea per motivi professionali. In questa categoria possiamo considerare gli information designer, e in modo diverso i giornalisti; e prima ancora scienziati e ricercatori, ovviamente con sfumature diverse.

Per chi deve lavorare alla creazione e comunicazione di informazioni a partire dai dati, le “W” si declinano in modo diverso (K. Börner, 2015). In questo caso si tratta di definire l’oggetto di studio, quindi quali sono le domande per studiare un fenomeno:

  • WHEN: analisi temporale;
  • WHERE: analisi geospaziale;
  • WHAT: analisi degli argomenti;
  • WITH WHOM: network analysis;
  • Analisi statistica.

Si tratta, in altre parole, di definire il problema. E nel campo dei fenomeni complessi, la definizione chiara del problema è il problema.

Dietro la scelta dell’analisi da fare, si pongono questioni di etica del design ancora più importanti. Il concetto stesso di “dati” come “dati di fatto, certi” va maneggiato con grande attenzione: i “data” sono in realtà sempre “capta”, ovvero presi, selezionati, costruiti (J. Drucker, 2011). Con tutte le derivazioni negative possibili, ben espresse dalla formula “garbage in – garbage out” utilizzata nel campo del machine learning: se utilizzi dati insoddisfacenti, otterrai risultati scarsi.

Chi lavora con i dati dovrebbe avere un’idea di quali sono i dark data del suo progetto, in modo da ben definire il perimetro del suo lavoro e dei suoi risultati. Addirittura è possibile utilizzare una tassonomia di tipologie di dark data (D. Hand, 2020):

  • dati che sappiamo essere mancanti (known unknowns);
  • dati che non sappiamo essere mancanti (unknown unknowns);
  • selezione di un numero limitato di casi;
  • dati mancanti essenziali per il problema affrontato;
  • dati che potrebbero esserci stati se alcune azioni o condizioni fossero state diverse;
  • cambiamenti nel tempo;
  • definizioni discordanti dei dati;
  • sintesi (eccessiva) dei dati;
  • errori di misura e intervalli di incertezza;
  • dati che danno rappresentazioni distorte della realtà sottostante;
  • asimmetrie informative;
  • dati intenzionalmente nascosti;
  • dati fabbricati artificialmente;
  • affermazioni fatte oltre i limiti dei dati posseduti.

Le tipologie di problemi di metodo da affrontare sono molte, e ben note a chi lavora con i dati. Il concetto controintuitivo su cui porre l’accento è: sebbene “dato” sia percepito come sinonimo di “prova”, l’approccio migliore per avvicinarsi ad una rappresentazione di dati è un sano scetticismo sui dark data, ovvero delimitare il perimetro su ciò che è possibile e ciò che non è possibile dire a partire da quei dati.

Le rappresentazioni dei dati possono quindi essere manipolate in molti modi. Pensiamo ad esempio alla correlazione, con cui si indica la relazione tra due variabili, cioè la regolarità con cui crescono o decrescono. Ma il fatto che due fenomeni abbiano curve simili (come ad esempio il numero di film in cui appare Nicolas Cage ogni anno e il numero di persone morte affogate in piscina, come mostrato da Tyler Vigen in Spurious Correlations) non significa necessariamente che uno influenzi l’altro. Le false correlazioni, se decontestualizzate, possono essere decisamente ingannevoli.  Correlation is not causation.

Con i dati quindi è possibile ingannare/ingannarsi o vedere/mostrare correlazioni dove non ci sono.

Credits: tylervigen.com

 

DATI → RAPPRESENTAZIONE → PERCEZIONE → BIAS → POLARIZZAZIONE → DISPUTA?

Una visualizzazione dati va interpretata come un processo nel continuum “dati-informazioni-conoscenza” che coinvolge due soggetti: da un lato il designer, che la progetta, e dall’altra il destinatario finale, che leggerà/interagirà con questo artefatto (Masud, Valsecchi, Ciuccarelli, Ricci, Caviglia, 2010).

Una visualizzazione dati efficace, secondo Alberto Cairo (2016) dovrebbe avere cinque caratteristiche:

  • essere veritiera, cioè basata su una ricerca sincera, che non punti a ingannare il pubblico;
  • essere funzionale, per aiutare il destinatario a interpretare correttamente le informazioni;
  • essere bella, cioè generare la sensazione di armonia, intesa come insieme di piacere sensoriale e intellettuale;
  • essere illuminante, cioè portare il destinatario a fare scoperte che altrimenti sarebbero rimaste inaccessibili;
  • essere rilevante, dare cioè accesso alle informazioni di cui le persone hanno bisogno per aumentare il loro benessere e cambiare le loro menti in meglio.

Scendere così in profondità sulle linee guida di realizzazione è solo apparentemente un tecnicismo: un utente/fruitore consapevole di visualizzazioni dati è un bene sia per il designer (eticamente onesto), sia per la società nel suo insieme. Potremmo definire questa consapevolezza come visual critical thinking, o visual literacy.

Accanto alla literacy (capacità di leggere e scrivere) e alla numeracy (capacità di applicare i concetti matematici di base e il ragionamento logico) emerge sempre più la necessità di includere tra le competenze di base anche la graphicacy (crasi di graphical literacy), intesa come capacità di saper correttamente interpretare grafici composti da parole, numeri, immagini. La comprensione di un’infografica avviene se siamo in grado di comprendere il sistema grafico utilizzato (le convenzioni visive) e se abbiamo qualche conoscenza dell’argomento sintetizzato.

Non basta che una visualizzazione dati sia progettata correttamente, perché potrebbe ancora trarre in inganno il lettore che la guarda o che la potrebbe interpretare nel modo sbagliato, se non presta l’adeguata attenzione o se non ha le competenze di base per farlo.

Una visualizzazione dati potrebbe “mentire”, cioè essere ingannevole, per diversi motivi (A. Cairo, 2019):

  • perché è progettata male;
  • perché usa i dati sbagliati;
  • perché mostra una quantità sbagliata di dati (troppi o troppo pochi);
  • perché nasconde o confonde l’incertezza;
  • perché suggerisce pattern fuorvianti;
  • perché asseconda le nostre aspettative o i nostri pregiudizi.

In modalità diverse, abbiamo finora già affrontato alcuni di questi punti. Ora in particolare ci soffermeremo sull’ultimo, relativo ai pregiudizi, o più in generale, ai bias cognitivi. Uno dei motivi per cui un grafico può mentire è perché tendiamo ad essere inclini a mentire a noi stessi, cioè ad accettare e giudicare più favorevolmente informazioni che confermano il nostro punto di vista.

Credits: Alberto Cairo

 

DATI → RAPPRESENTAZIONE → PERCEZIONE → BIAS → POLARIZZAZIONE → DISPUTA?

I bias cognitivi sono le deviazioni sistematiche dalla razionalità nel giudizio, basati su percezioni deformate o pregiudizi, usati per prendere decisioni in fretta e senza fatica (Testa, 2020). Degli automatismi mentali che portano a decisioni sbagliate a partire da dati distorti.

Nel confrontarci con la complessità del mondo, cerchiamo di fare economia delle nostre energie mentali facendo riferimento a schemi mentali per riconoscere e classificare le situazioni: tali sono le euristiche cognitive, veri e propri escamotage mentali che ci portano a conclusioni veloci con il minimo sforzo cognitivo. Le euristiche sono un ottimo esempio del “pensiero veloce” individuato da Kahneman; sono scorciatoie imperfette ma comode per arrivare a conclusioni veloci, mentre i bias cognitivi sono euristiche inefficaci, che alla lunga diventano pregiudizi.

Ai tempi dei social network (oltre 4 miliardi di utenti attivi dei social ad Ottobre 2020), in particolare alcuni bias risultano particolarmente diffusi. L’elenco dei bias cognitivi è sterminato, possono essere suddivisi in quattro aree: su cosa dovremmo ricordare; casi in cui dobbiamo scegliere velocemente; casi in cui non c’è abbastanza significato; casi in cui abbiamo troppa informazione (vedi l’immagine sottostante). In particolare si può ricondurre all’ultima categoria un bias diventato particolarmente noto e attuale in questi ultimi anni: il confirmation bias.

 Clicca sull’immagine per vedere la versione ingrandita e interattiva

Credits: Wikipedia

 

DATI → RAPPRESENTAZIONE → PERCEZIONE → BIAS → POLARIZZAZIONE → DISPUTA?

Si pone il tema della diffusione dell’informazione, che è stato poi amplificato dai social network. Qualsiasi informazione è ormai a portata di mano, sullo schermo di un computer o di uno smartphone: economia, politica, salute, terrorismo, migrazioni. È sufficiente fare una ricerca su Internet per credere di essere esperti (qui il riferimento è all’effetto Dunning-Kruger). Le bufale, ovvero informazioni false create ad arte, ma verosimili, diventano virali, cioè si diffondono in poco tempo con grande forza.

Si creano dei meme, delle unità minime culturali (termine coniato da Richard Dawkins nel 1976 nel libro Il gene egoista come tentativo di spiegare il modo in cui le informazioni biologiche si diffondono), cioè delle piccole parti di informazione che si propagano e sopravvivono in rete, appunto come se fossero dei virus. E per questo ogni tanto ritornano: continuano a sopravvivere in rete. Qui si innesta il meccanismo di funzionamento dei social network: per continuare ad essere diffuso, un meme ha bisogno di provocare emozioni intense, come magari la rabbia nei confronti degli immigrati o la paura che un vaccino provochi l’autismo. Emozioni che possono attecchire se non si guarda ai dati reali. La domanda successiva è: condivido una notizia falsa perché non me ne accorgo oppure perché conferma il mio pregiudizio?

La qualità dell’informazione sui social finisce così per perdere di rilevanza; le persone prendono per vero quello che conferma il loro universo di riferimento. La diffusione di fake news prolifera su questa credulità. Accettiamo una nuova informazione solo se è coerente con il nostro sistema di credenze già strutturato. Una delle tendenze è quella di semplificare i meccanismi causali; ma nel modo in cui formulo la domanda (ad esempio “danni scie chimiche”) possono esserci già i presupposti della risposta. E qui torniamo a quanto detto in precedenza a proposito del pensiero critico e delle domande che per primo deve porre chi analizza dati e realizza rappresentazioni grafiche. In modo differente, un sano (e non complottista) approccio critico all’informazione è un buon modo per cercare di valutare le informazioni che riceviamo.

La questione diventa: non solo tendiamo ad autoingannarci selezionando soltanto informazioni che confermano i nostri punti di vista, le nostre visioni del mondo e i nostri pregiudizi, ma tendiamo a stare in cerchie di persone che la pensano come noi. Questo fenomeno è fortemente amplificato dagli algoritmi sottostanti i social network, che rafforzano la nostra permanenza in echo chambers, cioè camere dell’eco, nicchie di persone con interessi comuni. Questo può portare alla polarizzazione degli utenti che sentono la forte appartenenza a gruppi di interesse, una sorta di vere e proprie tribù (Quattrociocchi, Vicini, 2016).

Credits: jamesclear.com

 

DATI → RAPPRESENTAZIONE → PERCEZIONE → BIAS → POLARIZZAZIONE → DISPUTA?

A questo punto, se viviamo la nostra “on life” in nicchie, se sentiamo la nostra appartenenza a tribù che si confrontano con punti di vista inconciliabili, come possiamo uscirne?

Il confronto on line ci pone una serie di sfide (Gheno, Mastroianni, 2018), per l’effetto distanziante generato dai social media, il coinvolgimento emotivo che ci porta a difendere il nostro mondo, la razionalizzazione che accentua il peso delle parole lasciando meno margine di interpretazione per l’assenza del paraverbale, la dimensione pubblica che rende ciò che scriviamo disponibile, permanente e riproducibile. La strada (faticosa) percorribile può essere quella di scendere in campo e accettare il dibattito, ma provando a condividere una grammatica comune di “ingaggio”, cioè di coinvolgimento nelle discussioni attraverso un dissenso non litigioso ma potenzialmente fecondo di nuovi significati.

Mastroianni (2020, pp. 80-97) cita sei mosse per “gettarsi nella mischia” nella nostra on life, in funzione di dissenso e obiezioni dell’interlocutore: ignorare (in caso di espressioni belligeranti), accettare la ragione altrui (e dare un risvolto proficuo alla discussione), accettare in parte (per passare dalla competizione alla cooperazione nella creazione di senso), chiedere ragioni o prove (per far emergere il vero obiettivo dell’interlocutore), rifiutare e confutare le obiezioni (se l’argomento è rilevante e le prove stringenti), attaccare l’interlocutore sul personale (mossa fallimentare, è l’anticamera di ogni litigio).

Questi diversi approcci, a seconda della situazione, aprono (o meno) diversi spazi per il confronto e il dialogo, pur partendo da posizioni diverse. Il dialogo, anzi la “disputa felice” è come una danza, che richiede però l’impegno di tutti i partecipanti coinvolti. Sebbene ognuno di noi, a seconda degli argomenti, sia portatore di un punto di vista e dei propri bias, un atteggiamento utile nel confronto delle opinioni altrui dovrebbe essere quello di aprirsi al dubbio e all’incertezza, per incrinare il solido edificio delle certezze (che a volte rischiano di diventare fedi incrollabili).

Non sempre consapevolmente, assistiamo o siamo attivamente coinvolti in un confronto tra narrazioni diverse. Tanto nella scienza, intesa come analisi e interpretazione di fenomeni a partire da solide metodologie, quanto tra i cittadini/utenti. In questo secondo caso su un piano ovviamente diverso, inteso come opinioni e visioni del mondo. Sottostante a questo discorso resta la necessità di aprirsi all’incertezza e al paradigma complesso del pensiero reticolare per guardare il mondo e scegliere come rappresentarlo.

 

Conclusioni

Terminiamo riprendendo la domanda che dà il titolo a questo saggio: come interpretare il mondo che ci circonda?

Non c’è una risposta univoca, ma è importante tenere aperto lo spazio per il confronto, condividendo alcune “regole di gioco” comuni:

  • la predisposizione a interrogarsi per comprendere le informazioni e le visualizzazioni dati che ci vengono presentate;
  • la disponibilità a confrontarsi con punti di vista diversi ma rimanendo sui contenuti, e non sulle personalizzazioni.

C’è quindi una questione di visione del mondo e di narrazione. La scienza è oggettiva nel metodo, ma è anche pluralistica, accetta le differenze, anzi è viva grazie alla capacità e voglia di mettere in discussione l’esistente. Questo non va confuso con i complottismi, cioè con il mettere in discussione ma senza parlare lo stesso linguaggio, cioè senza fonti e metodi attendibili e condivisi.

Il cittadino, l’utente, tutti noi, ci ritroviamo e ci siamo ritrovati nel 2020 in molte occasioni a cercare di interpretare e comprendere grafici, visualizzazioni dati, rappresentazioni. E questo, da un lato, implica la necessità di avere una buona “cassetta degli attrezzi”, cioè le competenze necessarie per approcciarsi e valutare con senso critico le informazioni proposte. Da qui la prima metà del titolo di questo saggio: le visualizzazioni complesse.

Allo stesso tempo c’è un secondo livello più profondo che si interseca con il primo, e che riguarda il modello di mondo, il paradigma sottostante alle rappresentazioni che designer, scienziati, giornalisti creano e presentano. La visione complessa del mondo. Il modo con cui gli scienziati (e i cittadini) guardano ai fenomeni. Lo abbiamo visto con le curve dell’epidemia raccontate ogni giorno dai media. Un approccio lineare e riduzionista, causa-effetto, non è sufficiente per spiegare e comprendere. Il numero di positivi, ospedalizzati e purtroppo decessi segue di alcune settimane le decisioni politiche di sanità pubblica intraprese. Il 2020 è un chiaro esempio di fenomeno emergente, di sistema complesso e reticolare. Azioni su una parte del sistema che influiscono in maniera non lineare su altre parti. Nodi (attori) collegati tra di loro in modo variabile. Cluster di soggetti, piccole reti che non devono entrare in contatto per non diffondere il virus. Il concetto di rete (come ricorda anche Manuel Lima in Visual Complexity) è una delle metafore emergenti della complessità, utile e necessario per comprendere le dinamiche di fenomeni che altrimenti non saremmo in grado di spiegare.

Da qui la seconda parte del titolo: complessità visualizzata. Complessità come nuovo paradigma condiviso, come terreno comune, nuova grammatica da cui poi iniziare a progettare, visualizzare, discutere.

 

PARLARE DI DATI è fare politica: non solo per il sistema di definizione dei colori delle regioni divenuto attuale in Italia durante la seconda ondata di Covid-19 a fine 2020, ma ad esempio per il climate change, la prossima grande crisi che resta sempre nel non detto, in una sorta di rimozione collettiva.

Credits: Mackaycartoons

Con il dato che scegliamo, che come abbiamo visto nella percezione comune è sinonimo di “oggettività”, in realtà esprimiamo un punto di vista e il paradigma adottato per vedere il mondo. Forniamo chiavi di lettura e strumenti, che possono/potrebbero essere utilizzate dai decisori (da qui la facilitazione del processo decisionale). Le analisi e le rappresentazioni dei dati sono biased, influenzate, dalle domande che ci sono alla base del processo, dalle ipotesi di partenza: “se torturi i numeri abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa” (D. Huff, 1954). Quindi magari, la prossima volta che vedremo dei dati rappresentati (in un grafico o in una rappresentazione dati più complessa), potremo pensare non solo a quale domanda risponde, ma quali altre lascia fuori. E come questo influenzerà il dibattito successivo. Sistemi complessi interconnessi: fatti, dati, rappresentazioni, decisioni, dibattito, opinione pubblica. Qui scritte come un elenco, ma che vanno pensate come una rete interconnessa.

In chiusura, possiamo parafrasare Hans Rosling (2018) che dice “il mondo non può essere compreso senza numeri. E non può essere compreso solo con i numeri”. Oltre che della Factfulness a cui fa riferimento Rosling, abbiamo e avremo sempre più bisogno anche della Visual Literacy per essere consapevoli di cosa stiamo guardando, da quale punto di vista, con quale obiettivo per il futuro.

 

Riferimenti bibliografici:

  • A. Cairo, The Truthful art. Data, charts, and maps for communication, New Riders, 2016.
  • A. Cairo, How charts lie. Getting smarter about Visual Information, W. W. Norton & Company, 2019.
  • K. Börner, Atlas of knowledge: Anyone can map, The MIT Press, 2015.
  • R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, 1995.
  • J. Drucker, Humanities Approaches to Graphical Display, in Digital Humanities Quarterly 2011 5.1.
  • L. Floridi, Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina Editore, 2020.
  • V. Gheno, B. Mastroianni, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi, 2018.
  • D. J. Hand, Dark data. Why you don’t know matters, Princeton University Press, 2020.
  • D. Huff, Mentire con le statistiche, Monti & Ambrosini, 2009.
  • D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, 2017.
  • M. Lima, Visual Complexity. Mapping patterns of information, Princeton University Press, 2011.
  • B. Mastroianni, Litigando s’impara. Disinnescare l’odio online con la disputa felice, Franco Cesati Editore, 2020.
  • L. Masud, F. Valsecchi, P. Ciuccarelli, D. Ricci, G. Caviglia, From Data to Knowledge. Visualizations as transformation processes within the Data-Information-Knowledge continuum, in 2010 14th International Conference Information Visualisation.
  • R. Paul, L. Elder, The miniature guide to Critical Thinking. Concept and tools, Rowman & Littlefield, 2020.
  • W. Quattrociocchi, A. Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, Franco Angeli, 2016.
  • H. Rosling, Factfulness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo, Rizzoli, 2018.
  • A. Testa, Il coltellino svizzero. Capirsi, immaginare, decidere e comunicare meglio in un mondo che cambia, Garzanti, 2020.
  • T. Vigen, Spurious Correlations. Correlation does not equal causation, Hachette Books, 2015.