Abbiamo chiesto a Maria Stella Bottai, storica dell’arte e studiosa della complessità, una lettura dell’ultimo libro di Edgar Morin, pubblicato in Francia a giugno 2021: ecco il testo.

Per i suoi 100 anni da poco compiuti Edgar Morin, pensatore, saggista, tra i massimi teorici della complessità, si regala e ci regala un libro: Leçons d’un siècle de vie, uscito in Francia per le edizioni Denoël e in arrivo in Italia per Mimesis. 
Come annuncia il titolo, l’autore ripercorre le tappe salienti della sua biografia sotto la lente della complessità e secondo il suo metodo. Ma, specifica nel preambolo, senza voler dare lezioni a nessuno, piuttosto trarre lezioni da un’esperienza secolare e condividerle con gli altri.
Leggo il testo durante un lungo viaggio in treno nel sud della Francia, e mi pare che il libro scorra anch’esso su un binario, con due temi portanti che vorrei portare qui all’attenzione (traducendo dal francese le citazioni): la complessità dell’identità e quella del destino.

 

Partiamo dall’identità. Il momento della nascita dà un’impronta al libro: venuto al mondo con difficoltà, sopravvissuto egli stesso al parto, una volta nato ha portato in sé, geneticamente e culturalmente, generazioni di famiglie e con esse lingue, religioni, credenze, migrazioni. Ognuno di noi ha in sé l’identità della propria famiglia, del territorio, dell’etnia, del paese, del continente, un’identità complessa “una e plurale insieme”. A quella d’origine si aggiunge l’identità che ci creiamo con le scelte adoperate nella vita, ed è fuori dalla sua famiglia, scrive Morin – a scuola, al cinema, nei libri, nelle strade – che è avvenuta la sua educazione, che ha appreso le sue verità.

La seconda tematica è il destino, spesso inteso quale destino comune, e detta le pagine a mio avviso più belle, dedicate al continuo rincorrersi della fortuna e della sfortuna. Come nella storiella del contadino saggio che, afflitto da disgrazie, risponde ‘vedremo’ a chi lo compiange, puntualmente la disgrazia diventa una grazia, e la grazia una disgrazia. La perdita del cavallo, strumento del suo lavoro, è inizialmente una sfortuna, ma si rivela una fortuna quando questo torna con altri cavalli; l’allevamento di cavalli porta un giorno alla rovinosa caduta dell’unico figlio, e l’abbondanza si trasforma in pericolo; che però diventa salvezza quando, allo scoppio della guerra, la gamba rotta esonera il ragazzo dal partire soldato. E così via.

In francese le parole ‘chance’ (fortuna, possibilità) e ‘malchanche’ (sfortuna) si susseguono nella narrazione. Riporto un brano nella lingua originale per rendere la ritmicità delle parole: “Ainsi la malachance qui me vouait à la mort avant de naître est-elle devenue chance de vivre. Nèanmoins toute chance de vivre comporte la possibilité d’innombrables malchanches” (così la sfortuna che mi votava alla morte prima di nascere è divenuta fortuna di vivere. Non di meno ogni fortuna di vivere comporta la possibilità di innumerevoli sfortune). Sopravvivere al parto è stata una fortuna che lo ha portato al grande dolore della perdita della madre a dieci anni, una sofferenza che a sua volta lo ha spinto verso la letteratura, il cinema, la musica. Dalla sfortuna iniziale, scrive Morin, sono venute le grandi felicità della mia vita. E si chiede: non è così per ciascuno? Non è solo il destino a percorrere questa sorta di oroboro che è la vita, “gioco ininterrotto dell’errore e della verità”. La complessità dell’essere umano, a differenza delle macchine artificiali, è nell’imprevedibilità delle sue scelte, nella capacità di innovare, creare, e così portare l’inatteso. Sono prevedibili le probabilità di un processo evolutivo, non è prevedibile ciò che è creativo; accettando la creatività va accettato anche il valore dell’errore, a cui Morin dedica un intero capitolo che credo sarà di interesse per educatori e formatori.

Mi fermo qui. Nel libro i lettori troveranno vicende personali, la nascita dei suoi libri, considerazioni sulle guerre, la crisi dell’Europa, l’emergenza ambientale e sanitaria; e luoghi, teatri di ricordi, tra cui l’Italia, da cui proviene un ceppo della sua famiglia. Sottende il racconto la necessità di rifondare un umanesimo planetario, ‘rigenerato’ partendo dal riconoscimento della complessità umana che riconcili ragione ed empatia, benevolenza.

Per chi vuole approcciare il pensiero di Morin, il volume è un punto di partenza privilegiato; per chi lo conosce già, è una sincera testimonianza di vita sullo sfondo di un secolo di storia internazionale.

Ciò che mi porto a casa, la mia lezione, accettando il preambolo – oltre a tornare a leggere Dostoevskij, la cui sensibilità alla miseria e alle tragedie umane, dice l’autore, è assente nell’umanesimo occidentale – è questa bella e terrificante immagine della vita come un navigare “in un oceano di incertezze, attraverso qualche isola o arcipelago di certezze dove rifocillarsi”. Gli ultimi accadimenti ci hanno mostrato che il caso, l’inatteso, l’incerto emergono all’improvviso, ma che di fronte a essi non dobbiamo anestetizzarci. “L’impossibilità di eliminare l’alea da tutto ciò che è umano, l’incertezza dei nostri destini, la necessità di aspettarsi l’inatteso, questa è una delle lezioni maggiori della mia esperienza di vita”.

Per concludere ricordo che In Italia il centesimo compleanno di Morin è stato celebrato, tra le altre iniziative, dal Complexity Institute in collaborazione con il Complexity Education Project, con webinar, letture e pubblicazioni: qui alcuni materiali.

(nell’immagine in evidenza la vetrina di una libreria francese fotografata da Maria Stella Bottai).